La diocesi di Saluzzo, dal 1597 era vacante a seguito di varie difficoltà, soprattutto politiche. Finalmente il pontefice Clemente VIII , nel Concistoro del 26 agosto 1602, preconizzò vescovo di Saluzzo l’oratoriano Giovanni Giovenale Ancina.
Egli era nato a Fossano il 19 ottobre 1545 e dopo aver frequentato le scuole della città, a 15 anni circa, fu inviato a studiare a Montepellier.
Ritornato in patria, proseguì gli studi a Mondovì, dove era presente un centro ben avviato di studi, patrocinato dal duca Emanuele Filiberto.
Alla scuola di illustri insegnanti fu ottimamente preparato per sostenere il pubblico esame di laurea.
Nell’anno 1566 andò a perfezionarsi nello studio della medicina a Padova e nel gennaio dell’anno seguente, a Torino, sostenne l’esame con la tesi di laurea dal titolo: In artibus et medicina, alla presenza del senato accademico, del nunzio apostolico e degli ambasciatori di Venezia e Ferrara.
Conseguita la laurea, si diede all’esercizio della medicina con competenza e passione; alla vasta cultura si accomunarono la modestia e la volontà di fare sempre il meglio.
L’Ancina, accogliendo l’invito di amici, si recò a Savigliano per assistere ad un capitolo generale dei frati Agostiniani, con l’intervento dei migliori studiosi dell’ordine, che trattarono argomenti che lo interessarono, essendo un uomo sempre curioso di fronte al sapere. In quella giornata, oltre alle conferenze umanistiche, si svolgevano anche sacre funzioni. Durante una liturgia, egli che era appassionato di musica, fu toccato dal canto Dies Irae; lo attirò il momento in cui Tommaso da Celano descrive, con drammatico lirismo, la fine del mondo ed il Giudizio Universale.
Giovenale si propose che da quel momento avrebbe sempre cercato di individuare nella creazione la manifestazione dell’amore di Dio.
Nell’anno 1574, Emanuele Filiberto mandò a Roma in qualità di ambasciatore il Conte Mandrucci e Ancina lo seguì come medico personale.
Ospite di questa famiglia, ebbe la possibilità di frequentare il collegio romano dove insegnava il Card. Bellarmino, gesuita, e corsi di teologia tenuti da teologi notissimi.
Nella chiesa di San Giovanni dei fiorentini, San Filippo Neri spezzava il pane della dottrina cristiana con semplicità e grande profitto dei partecipanti, fra cui l’Ancina, che nel frattempo si affidò alla sua direzione spirituale. Nel mese di ottobre del 1580, Filippo Neri lo accettò con suo fratello Matteo nella Congregazione dei preti dell’Oratorio da lui fondata.
Due anni dopo Giovanni Giovenale fu ordinato sacerdote e nell’ottobre del ’86 Filippo Neri lo inviò a Napoli come rettore del collegio oratoriano, dove rimase per circa 10 anni, esplicando il meglio dei suoi carismi. La sua predicazione aveva un’impostazione squisitamente pastorale, alieno da inutili sottigliezze, abituata a far leva sulle grandi verità della fede, specialmente sui Novissimi, infiammata di forza comunicativa.
A Napoli sapeva farsi ascoltare da tutti, degli aristocratici diceva: “Questi pesci grossi, non escono dalle tane. Bisogna pur andare a casa di essi e, trovandoli a giocare, dire loro: “Signori, un po’ di posto a Dio! Si fermi il gioco!” E così fare un po’ di buona musica e canto e parlare loro al cuore e cavarne qualche cosa per il bene delle anime loro”.
Fu collaboratore in alcuni scritti del card. Baronio, che lo presentò al papa come sacerdote di grande vita spirituale e di dottrina.
Il papa Clemente VIII, nel Concistoro del 26 agosto 1602, lo preconizzò vescovo di Saluzzo e la domenica del 1° settembre, nella chiesa Nuova, la consacrazione episcopale conferì all’Ancina la pienezza del Sacerdozio. Mons. Ancina partì quindi alla volta di Saluzzo giungendo a Torino il 17 ottobre. Non volendo prestare giuramento di fedeltà al duca di Savoia, per non riconoscergli una indebita ingerenza negli affari ecclesiastici, si fermò a lungo nella nativa città di Fossano. Egli protestava: “Come Giovanni Giovenale sono suddito del duca di Savoia, ma come Vescovo: ego seun Dominus”.
Durante quei cinque mesi di permanenza a Fossano scrisse la prima lettera pastorale ai fedeli della Diocesi di Saluzzo, datata 10 gennaio 1603. la lettera evidenziava il suo programma-invito alla diocesi, che può essere riassunto attraverso questi stralci “…Fondamento di tutto la preghiera… Dare solenne valore alle sante Quarantore. Udienza a tutte le persone, nessuno escluso… Procureremo di visitare gli infermi, consolare gli afflitti e sollevare i bisogni dei poveri, secondo le nostre forze… Annunciare abbondantemente la parola di Dio in vari modi… Si tenga nelle domeniche dopo il pranzo l’esercizio fruttuosissimo della dottrina cristiana… Favorire l’introduzione dell’Oratorio, conforme al modo e stile usato in Roma, in Napoli…”. Quel forzato soggiorno lasciò un’incancellabile ricordo nei fossanesi, come narrano numerose testimonianze storiche. “Andiamo ad ascoltare il Santo” la gente diceva. Il carnevale del 1603 in Fossano a detta in un Padre Cappuccino parve cambiato in Settimana Santa. Nella città l’Ancina trovò le famiglie dei Dionisio e dei Mussi e le loro fazioni in feroce discordia. Sotto lo sguardo del Crocifisso, posto nella sala del Convento dai francescani, avvenne per il suo interessamento la pacificazione completa, di cui fu redatto pubblico strumento sottoscritto da ambe le parti come perenne monito ed invito alla concordia, alla fratellanza, alla pace.
L’Ancina partì alla volta di Saluzzo, accompagnato dal fratello Matteo, suo segretario. Circa cinquecento cittadini a cavallo lo accompagnarono fino a Manta dove pernottò, ospite del luogotenente del marchesato Michelangelo Saluzzo. Il giorno successivo, il 6 marzo fece solennemente ingresso in città accolto, come è riportato dagli storiografi, da una moltitudine di persone. Dopo una breve sosta nel convento di San Bernardino, si avviò verso piazza Castello, poi il corteo giunse alla chiesa del Gonfalone, tappa d’obbligo per ogni nuovo Vescovo e quindi raggiunse il duomo.
Il Consiglio della città gli fece molti regali, anche in natura, e la domenica successiva, IV di quaresima, celebrò in duomo la messa pontificale.
Condannò con estrema decisione l’ignoranza, l’indifferenza e il mal costume che imperversavano nella comunità. Soprattutto agì in difesa della fede minacciata dall’eresia, non risparmiando fatiche, senza alcun timore di mettere a repentaglio la propria vita e se per questo motivo raggiungeva una certa veemenza di tono, dall’altra faceva uso di dolcezza e benevolenza larghissima, di una ammirabile comprensione e anche di aiuto con i ravveduti. Conoscitore del canto e della musica fece largo uso di quest’arte per rendere decorose e attraenti, secondo il gusto del tempo, le funzioni religiose, tanto da far disertare il più chiassoso carnevale o i balli più divertenti, come avvenne a Pratavecchia nel 1604 in occasione della festa di S. Giacomo. Nei 17 mesi in cui svolse il ministero episcopale dimostrò di essere veramente il “Buon Pastore che dà la vita per le sue pecorelle”. Vi profuse i tesori del suo cuore di padre, la sua parola di dotto, la sua esperienza di apostolo, la sua carità di santo. Volentieri insegnava il catechismo ai fanciulli, soccorreva i poveri, riprendeva gli scandalosi, componeva i dissidi, teneva frequenti conferenze al clero, dando nello stesso tempo esempio di impressionante austerità di vita. A distanza di poco più di un mese dal suo ingresso, iniziò la visita pastorale. Dagli scarsi e monchi documenti relativi alla visita pastorale non si raccolgono che alcuni dati, e pochissimi nomi di parrocchie, ma sufficienti a capire il suo zelo apostolico. Tutti i biografi dell’Ancina, parlano della visita fatta a Paesana e in particolare a Pratoguglielmo. Fra tutte le parrocchie della diocesi quella di Dronero poi gli stava a cuore perché più insidiata dagli eretici.
Nel mese di maggio 1604 fu a Carmagnola. Nei giorni 3-4 maggio, festa della S. Croce, avvenne il celebre incontro dell’Ancina con S. Francesco di Sales. In tale occasione Mons. Ancina pregò Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, a tenere l’omelia. Terminata la funzione l’Ancina rallegrandosi con Francesco per la sua dotta e accessibile parola gli disse: “Tu vere sal es!” – riferendosi al nome Sales. Ma prontamente S. Francesco, anche lui riferendosi al nome Saluzzo, replicò all’Ancina: “Tu iurmo sal e lux, ego neque sal maque lux”.
Mons. Ancina provvide alla costruzione di un Seminario e alla celebrazione di un sinodo secondo le deliberazioni del Concilio di Trento.
Uomo di preghiera, cercò di inculcare nei fedeli tale valore spirituale inculcando la devozione mariana e soprattutto l’adorazione al SS.mo Sacramento, con l’istituzione delle SS. Quarantore che in Saluzzo terminano con la celebrazione del Martedì Santo.
Le giornate eucaristiche vennero celebrate dal vescovo stesso oltre che a Saluzzo anche a Verzuolo, Dogliani, Dronero.
Morì prematuramente il 31 agosto 1604 e la causa del suo decesso non fu mai chiarita; rimase il sospetto di un avvelenamento perpetrato da una persona che aveva richiamato alla santità di vita.
Fu sepolto nel presbiterio del duomo. Il popolo lo ebbe subito in venerazione di santità tanto che nel 1619 fu iniziato il processo canonico sull’eroicità delle sue virtù. La causa di beatificazione fu impostata sul martirio e per tale motivo incontrò numerose difficoltà. Detta causa riprese più volte e portò (come vedremo) alla sua proclamazione di beato da parte del papa Leone XIII il 9 febbraio del 1890.
Attualmente i suoi resti mortali sono raccolti in un’urna sottostante all’altare eretto in suo onore e a lui dedicato da Mons. Monale in occasione delle sua beatificazione. L’urna dorata è stata donata dai padri filippini a seguito delle nuove ricognizioni dei resti mortali del beato eseguita da Mons. A. Fustella il 17 dicembre 1973. Presso di lui sostano continuamente il devota preghiera il clero e il popolo saluzzese che invocano l’intercessione del Pastore buono e zelante.